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“Napoli Sottencoppa”: ‘A subbretta, ovvero il gelato di Nerone

 

L’imperatore,  usciva pazzo per il gelato e quando non stava a Napoli, inviava veloci corrieri a procurarsi le neve nei depositi sul Vesuvio

…Iamm’ô bar ô Chiatamone: «Vuó ‘o cuppetto o vuó ‘o spumone?»… «Chello ca costa ‘e cchiù»: benedetti Riccardo Pazzaglia e Domenico Modugno che quasi settant’anni fa scrissero il testo e le note di “Io, Mammeta e tu” dalla quale abbiamo tirato i versi riportati sopra.

La storia del gelato, in ambito europeo, così come quella di tante altre delizie comincia, dunque, ancora una volta a Napoli. A Neapolis, per essere più precisi.

Ovvero in quella città che 2000 anni fa era, dopo Roma, uno dei centri urbani più importanti del mondo per cultura, genialità e cucina.

Non ci dimentichiamo che la cena fantastica di Trimalcione, il liberto, ovvero lo schiavo reso libero dal proprio padrone, secondo alcuni studiosi, si svolge proprio nell’area flegrea, come gran parte del Satyricon di Petronio, il ricco elegantone romano vissuto all’epoca di Nerone. Dunque, se le prime tracce di esistenza in vita del gelato arrivano dall’altra sponda del Mediterraneo, ovvero dall’Egitto, dove, sette secoli prima della venuta di Cristo, pare che in una piramide siano state trovate delle coppette nelle quali andavano in una il ghiaccio e nell’altra della frutta cotta, dalle nostre parti la faccenda “gelato” viene datata alla prima metà del I secolo avanti Cristo.

Vale a dire che all’epoca di Nerone, a Napoli si mangiava il gelato.

Ovviamente non si trattava delle delizie che l’arte gelatiera moderna è capace di consegnarci per dare sollievo alla calura o piacere al gusto nelle altre stagioni ma pur sempre di gelato si tratta. Di sorbetto, a voler essere precisi.

Quello che a Napoli, prendeva  il nome di ‘a subbretta, ottenuta facendo raffreddare in un recipiente di  rame una miscela  di acqua, limone e zucchero. E però, duemila anni fa non ci stavano queste diavolerie “moderne”… e dunque come facevano i pasticcieri di Nerone, che era una specie di gelato-dipendente dell’epoca,  a soddisfare il palato del loro imperatore?  C’erano dei corrieri che in groppa a cavalli velocissimi si dirigevano verso i depositi nei quali prelevavano la neve che, caduta i abbondanza durante l’inverno, veniva conservata in buche profonde coperte da felci, e da terreno, alla profondità di almeno un metro, e la riportavano rapidamente nella capitale .

E dove stavano quei depositi?

Sul Vesuvio, ovviamente. Ovvero là dove la neve d’inverno cadeva in abbondanza.

Tutto questo, quando l’imperatore non stava dalle parti di Napoli, dove poteva meglio godere di quella prelibatezza.

O meglio ancora, a Pompei, dove nelle bettole cittadine specializzate si vendeva ghiaccio triturato e addizionato con miele.

Insomma, quello di Nerone, fu l’antenato del moderno sorbetto, il gustosissimo tipo di gelato, «padre» di quello attuale, che per secoli e prima dell’avvento dei moderni macchinari ha deliziato e rinfrescato i palati dell’umanità, dai più fini a quelli più rudi.

La primogenitura di “sorbettieri” moderni va tuttavia assegnata agli arabi. Il sorbetto, dal turco “serbet” che significa “bere” e che a Napoli divenne poi ” ‘a subretta”, tra il 1100 e il 1200 venne migliorato con l’aggiunta di altre essenze dolcificanti e gusti di frutta. Semplice da preparare, nella sua veste più umile, che non significa meno squisito, il sorbetto può essere considerato una specie di sposalizio, felicemente riuscito, tra acqua, zucchero, limone e freddo.

Digeribile, rinfrescante, nutriente e senza controindicazioni, si fabbricava mescolando gli ingredienti in un recipiente cilindrico di rame, inserito in un mastello di legno di maggior diametro.

Nello spazio tra i due contenitori veniva . viene, messo del “ghiaccio secco”, ovvero dell’anidride carbonica solida, e sale grosso, per far abbassare il punto di congelamento. E poi toccava  all’esperta mano del subbrettaro che a intervalli regolari faceva ruotare il cilindro di rame colmo a metà del liquido. Con il coppiniello, un piccolo mestolo di metallo, il venditore raccoglieva la “brina” che si formava sulle pareti interne del cilindro e riempieva il cono o il secchiello o pure il bicchierino. Sopra, alla fine, ci andava sempre  una scorzetta di limone, a dare maggior guarnizione e profumo al tutto.

Chi sà quante volte Nerone avrà detto alla sua Poppea : «Vuó ‘a subbretta o acqua e limone?»… Ma non conosciamo la risposta. Che considerata la lingua tagliente dell’imperatrice non sarà certamente stata  «Chello ca vuó tu». Anzi.

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