
NUOVO FAIR PLAY FINANZIARIO
Il nuovo Fair play finanziario sarà oggetto di discussione a Nyon il 9 e 10 settembre da parte dei vertici UEFA con la illusione di cambiare tutto ma con la certezza di non cambiare niente. Se tutto andrà bene ci sarà solo la riproposizione del vecchio e fallito sistema. I club potranno, stando alle anticipazioni che trapelano (Times) spendere sino ad un massimo del 65-70% dei ricavi per stipendi, agenti e acquisizione dei cartellini di calciatori. Agli eventuali trasgressori si applicherebbe una sanzione pecuniaria definita luxury tax che sarà automatica (il vecchio fair play finanziario colpiva, invece, gli sforamenti degli anni precedenti). Non ci vuole un mago della finanza per comprendere che imporre ad una azienda il pareggio di bilancio (ricavi pari ai costi) e sottoporre le spese al rispetto di un tetto percentuale è sostanzialmente la stessa cosa.
Ne deriva che i club che hanno presentato apporti dagli azionisti come ricavi potranno continuare tranquillamente a farlo, ma il nuovo sistema privilegerà il doppio binario tra chi è in grado di ritoccare i ricavi con sponsorizzazioni fatte in casa e chi non può farlo. Lo stesso tra chi può disporre di grandi fatturati commerciali (reali) su scala globale e chi non è in grado di farlo. Questo squilibrio o, se vogliamo essere più precisi, sesparequazione ovviamente, tende a favorire, comunque, la Premier ed i club controllati da stati sovrani (Quatar-Psg) ed Emirati (M.City). Per assurdo, ma è vero, i club privilegiati potranno calibrare i ricavi al livello di costo della rosa desiderato per non essere sanzionati, mentre gli altri saranno certamente penalizzati se non tutto andrà a regime e privati di conseguenza di risorse che finirebbero ai club più facoltosi. L’Opa del Quatar sul calcio europeo sarebbe così realizzata e la cambiale concessa a chi non ha sostenuto la Superlega andrebbe subito all’incasso. Si creerebbe, pertanto, il paradosso che il nuovo sistema andrebbe a legittimare la produzione di ricavi creativi, anzichè combatterli (come faceva finta di fare il vecchio sistema Fpf) buttando giù l’ultimo velo di ipocrisia legalizzando, in sostanza, gli aumenti di capitale travestiti da sponsorizzazioni, alla faccia, della coerenza e uguaglianza di diritti e doveri!.
In sostanza il Fpf non ha salvato il calcio europeo, sotto forma di miglioramento dello stato finanziario dei club ma bensì il calcio europeo ha rafforzato tutto il suo stato patrimoniale grazie soprattutto a due fattori: la crescita esponenziale dei ricavi per la penetrazione nei mercati globali e l’afflusso di numerosi investitori. L’aumento dei ricavi non peggiora la posizione finanziaria di una industria, anzi: la prova è che il rapporto tra i costi della rosa e fatturato è sostanzialmente rimasto intatto (65%), che il costo dei cartellini è aumentato sensibilmente, come le commissioni agli agenti. Pertanto lo squilibrio competitivo è diventato insostenibile: nessun club esterno ai top 10 ha raggiunto la finale champions negli ultimi 10 anni. All’epoca il Fpf tutelava i club storici dalle incursioni dei cosidetti nuovi barbari (M.City, Chelsea, Psg) proteggendo coloro che generavano ricavi tipici (biglietti, diritti, sponsor reali) da chi conquistava competitività sul campo, acquisendo campioni. Ma il tentativo è miseramente fallito e sopratutto non ha impedito agli azionisti privati di introdursi nel calcio che conta e farla da padroni. Questo alzando a dismisura i prezzi di cartellini, ingaggi e commissioni ecc.
L’Uefa per poter rimediare a questa ingiusta nefandezza dovrebbe, in primo luogo modificare il sistema degli incentivi, che impone grandi investimenti ai club attraverso la prospettiva dei premi champions, portandoli a consumare più risorse di quelle che potranno ricavare. In effetti, allo stato, l’eccesso di investimenti condiziona molto i modelli di gestione dei club. La soluzione più razionale e corretta dovrebbe portare ad un sistema di redistribuzione a monte delle risorse raccolte da sponsor e Tv, mentre la nuova redistribuzione a posteriori crea un sistema che porta i più ricchi a diventarlo ancora di più a discapito dei poveri. Ad avviso del sottoscritto il problema è il colossale conflitto di interessi tra i ruoli di arbitro e imprenditore che la Uefa ricopre in contemporanea. L’Uefa, in buona sostanza, da una parte, è garante delle regole ma nello stesso tempo è proprietaria della formula, con grandi interessi in gioco. Se non cessa questo conflitto di interessi sarà impossibile fissare regole che preservino l’incertezza delle competizioni.
Gli incentivi sono il motore, come stumento di esercizio del potere, ma la ricerca dei premi spinge i club all’eccesso di investimento. La competittività si è sempre basata dull’acquisizione del talento sportivo che poi è risorsa scarsa e che si trasforma in aumento immediato dei costi (ingaggi e cartellini). Il sistema è talmente perverso che distrugge se stesso ed è molto difficile salvarlo con le nuove regole.
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